BULLISMO – NON ERO UNA BAMBINA FELICE…
Non sono stata una bambina felice, anche se a tutti lo sembravo; ma guardandomi indietro, col senno di poi, vedo più ferite di quante ne vorrei ricordare.
Può sembrare fuori luogo che per parlare di bullismo si vadano a rivangare i tempi dell’asilo, ma gli scherni cominciarono allora, perché a causa di una pesante cura di cortisone ero “cicciona”: per fortuna mia mamma ebbe il buonsenso di rispondermi “Dicono così perché sono invidiose, perché tu sei una bella bambina e loro sono come degli scheletrini”. Ma il mio problema fondamentale è sempre stato essere troppo educata, troppo buona, fino al punto in cui a furia di tirare la corda si rompeva… ed esplodevo, passando dalla parte del torto. Questo fino ai giorni nostri, in tutti gli ambienti scolastici e lavorativi e associativi: finché tacevo passavo per stupida, quando poi aprivo bocca passavo per stronza.
La prima sciocchezzuola che ricordo: al famigerato asilo dovevamo spennellare di colla l’interno di un disegno e poi riempire la sagoma con chicchi di riso; i pennelli non bastavano per tutti, io attendevo il mio turno mentre gli altri si strappavano i pennelli dalle mani, alla fine quando tutti si stavano facendo i comodi loro e io non avevo ancora potuto cominciare il lavoro mi scocciavo e impadronitami del grosso vaso di colla la rovesciavo direttamente sul disegno, facendo un disastro. Con conseguenti urla della maestra.
Un motivo frequente di presa in giro era il mio nome, uguale a quello della famosa cantante. Credo fossero stati i miei genitori a coniare la buffa filastrocca che intonai solennemente all’ispettore scolastico in visita, che mi aveva chiesto il mio nome: “Gigliola, Raffaela, Cristina Foglia… che fa scappar la voglia”. E qui fu una felice ilarità generale, uno dei momenti più divertenti che ricordi. Molto meno divertente fu il giorno in cui a pranzo tutti i compagni si misero in coro a scandire “Giglio-la Cinquet-ti, Giglio-la Cinquet-ti” e siccome non riuscivo a farli smettere tanto urlavano, sbattei un pugno sul tavolo facendo tremare i bicchieri… e la maestra invece di sgridare i compagni fece gli occhiacci a me. Ho sempre avuto un fortissimo senso di giustizia e questa cosa me la ricordo ancora.
Intendiamoci: fin qui di bullismo non si può parlare, casomai di piccole cattiverie infantili, anche se gli insegnanti avrebbero dovuto rimproverare chi stuzzicava e non chi reagiva, educare è anche far capire da che parte sta il torto, ma insomma siamo sopravvissuti…
Delle scuole elementari non ho ricordi particolarmente brutti imputabili ai compagni, a parte le solite gelosiette tra amichette o certi comportamenti violenti delle più prepotenti (la doppia rima non è voluta), mentre sull’insegnante titolare dovrei aprire un doloroso capitolo che non avrei nessuna voglia di aprire e che non c’entra con l’argomento in corso… o forse sì, visto che faceva partecipare i compagni alle punizioni scandendo in coro il numero delle sculacciate. Lo adoravamo, quel maestro; mi sono accorta solo da adulta del male che ci ha fatto psicologicamente. Ma a paragone della prima maestra che mi prendeva a bacchettate sulle mani facendomi vomitare tutti i giorni dalla paura (prima elementare), sembrava un angelo. E a quell’epoca, se raccontavi a casa angherie di compagni o di insegnanti venivi colpevolizzato tu, come se fosse colpa tua.
I veri problemi, le vere cattiverie, cominciarono alle medie inferiori: classe tutta femminile che significava malizia doppia. Io leggevo moltissimo, anche cose da adulti, sapevo spiegare alle compagne meno acculturate anche difficili termini inerenti questioni delicate come la sessualità, insomma quello che a volte le mamme non dicevano, ma a differenza delle “divette” della classe non fumavo, non mi truccavo, non mi vestivo alla moda e non avevo un ragazzo (parliamo di bambine di dodici anni!). Questo a quanto pare dava loro licenza di dire che non ero “normale” e di schernirmi pesantemente, oltre a cercare in tutti i modi di plagiare le mie amiche e mettermele contro. Un giorno la mia migliore amica non riusciva a cavarsi un’idea per il tema d’italiano, riuscii a buttarle giù una traccia appena in tempo, alla riconsegna del compito in classe la prof commentò che era un tema molto stringato ed essenziale più simile al tema di un ragazzo che di una ragazza, e le vipere con un sorriso cattivo mi dissero: “Sembra il tema di un maschio perché l’hai fatto tu”. Un’altra volta a una festa si giocava all’ “assassino”, una specie di merenda con delitto insomma, la mia amica faceva il morto stesa per terra e io per ridere le feci il solletico: le solite vipere le dissero poi (e lei tonta me lo venne a riferire) che a giudicare da quel gesto sarei diventata “una lesbica o una prostituta”. A parte che non vedo il nesso, ma parlo sempre di bambine di 12 anni…
Beh, non mi sono sposata ma per nessuno dei motivi ipotizzati da quelle pazze; una delle più accanite l’ho rivista anni dopo che spingeva un passeggino e, lasciatemelo dire, mi sembrava tutt’altro che serena e felice. Meglio sole che male accompagnate?
Poi venne il Liceo Classico. Lì oltre a non essere bella e alla moda avevo anche altre colpe: innanzitutto non appartenere a un certo livello sociale, essendo figlia di un impiegato e di una commessa mentre lì c’era la “crème” della città, figli di medici e avvocati e industriali; e poi essere “politicizzata” e dire cose scomode alle assemblee d’istituto. Si era nel periodo del terrorismo e una volta ripetei quello che avevo sentito dire a mio padre: che i brigatisti erano figli di papà mentre i figli degli operai e degli impiegati non avevano tempo di andare in giro a sparare alla gente. Tornati in classe alcuni miei compagni maschi mi presero in mezzo, in gruppo, tutt’attorno, rinfacciandomi di aver detto quelle cose e cercando di intimidirmi; arrivò un professore e io scivolai in mezzo a loro per andare al mio posto. Mi rivolsi a un prof delle medie, vecchio amico di mio padre (altra cosa che mi veniva rinfacciata), e lui non seppe consigliarmi altro se non evitare di andare alle assemblee. C’erano poi quelli politicamente all’opposto, in teoria, che però erano della stessa estrazione, diciamo radical-chic o comunisti col maglioncino di cachemere; un po’ più educati, che con condiscendenza si lasciavano aiutare da te sbarbina idealista a volantinare, e poi allo sciopero contro il ministro dell’istruzione buttavano te quindicenne in prima fila con gli striscioni e loro stavano a scuola “se no mio padre…”.
I più sfegatati però non erano i fascistelli e neanche i sinistrorsi bensì gli appartenenti a un noto e potente movimento cattolico, quelli che proclamavano “Vogliamo portare Cristo nella scuola” e poi ti emarginavano perché non eri dei loro, ti urlavano contro e ti strappavano il microfono nelle assemblee… alla faccia dell’educazione (lasciamo stare la carità cristiana). Particolarmente fanatiche le ragazze, che alle lezioni di ginnastica si portavano dietro un poverino perché le accompagnasse alla chitarra mentre intonavano canzoni di chiesa negli spogliatoi. Io ero in sofferta ricerca spirituale, e a una di loro a cui mi ero affezionata (poi passata a opposti estremi) chiesi una preghiera per il capo dell’URSS appena deceduto; quella seppe solo sorridermi mentre il suo ragazzo mi insultava e mi urlava addosso dicendo che Breznev non meritava alcuna preghiera perché era un maledetto assassino e doveva andare all’inferno come tutti noi comunisti. Fu l’unica volta che riuscirono a farmi piangere.
Tra le altre amenità ricordo un’assemblea promossa da me con raccolta firme, su razzismo e intolleranza; i sapientoni volevano discettare se fosse stata più razzista l’America che importava schiavi dall’Africa per le piantagioni, oppure la Vecchia Europa che aveva fondato gli stati americani; io portai il discorso su tutti i tipi di intolleranza e pregiudizio, perfino sugli scherni indirizzati a chi leggeva fantascienza o credeva nei dischi volanti, sui luoghi comuni per cui un individuo non sposato “se è un uomo è uno scapolone d’oro, se è una donna è una zitella acida”, e così via: fu uno scandalo.
Dei protagonisti di quegli anni (e unisco nel ricordo i bulli e gli innocui) c’è chi ha fatto una brutta fine schiantandosi col potente mezzo; chi ha fatto carriera e ancora incontrandoti ti parla con lo stesso eloquio forbito e condiscendente; chi già allora plagiato dalle virago del movimento lo si vide per qualche anno vagare con sguardo smarrito per i corridoi dell’Università, evidentemente preda di un esaurimento o una depressione… Mi ha colpito trovare recentemente su Facebook il commento di una mia coetanea che diceva in pratica “rifarei il Classico ma non in quella scuola né in quella città” e parlava appunto degli atteggiamenti di superiorità, delle cattiverie…; le ho risposto che condividevo quell’analisi ma non me la sarei mai aspettata da lei, che sembrava in quegli anni il perfetto esemplare della studentessa di successo, bella, elegante, di buona famiglia, corteggiata ecc. E lei ha ribattuto: sembrava così, ma cosa ne sapete di quello che mi succedeva dentro?
Ho potuto solo darle ragione. Io stessa guardando quelle ferite penso che avrei potuto facilmente diventare depressa, anoressica, tossicodipendente o chissà cos’altro. Grazie a Dio sono stata più forte di loro.
Gigliola,
grazie infinite per questa tua condivisione veramente toccante.
Anch’io sono stata più volte vittima, prima alle elementari per il mio essere magrolina, piccola e quattrocchi, poi al liceo per essere “bruttina e sfigata”. E’ solo quando mi sono dovuta scontrare con la vita vera, quella che non è la scuola, che ho capito come dovevo tirare fuori la mia vera forza. E quando sono passata dall’altra parte della barricata, come insegnante, mi riprometto ogni giorno di educare senza mai lasciare che le vittime di bullismo passino dalla parte del torto.
Grazie per quanto hai raccontato, immagino non sia stato semplice, ma soprattutto grazie per essere quella che sei ora.
Un abbraccio forte forte.
Chiara
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